Una sentenza dell’8 settembre 2015 della Corte di giustizia europea afferma che la disciplina italiana della prescrizione può pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati dal diritto dell’Unione. La decisione è destinata a incidere profondamente sul nostro diritto penale. Dovrà pronunciarsi la Corte costituzionale.
La sentenza entra prepotentemente nell’annoso dibattito italiano sull’opportunità e modalità di riformare la disciplina della prescrizione dei reati. La decisione è destinata a incidere profondamente sul diritto penale italiano e ha già provocato le prime reazioni dei giudici.
Davanti al tribunale di Cuneo è pendente un procedimento penale contro diversi imputati per associazione per delinquere allo scopo di commettere vari delitti in materia di Iva, attraverso le cosiddette “frodi carosello”. Si tratta di un meccanismo attuato mediante vari passaggi di beni, in genere provenienti ufficialmente da un paese UE, al termine dei quali l’impresa italiana detrae l’Iva benché il venditore compiacente non l’abbia versata. Nel caso in questione, gli imputati avrebbero così realizzato negli esercizi fiscali dal 2005 al 2009 un’evasione dell’imposta in relazione all’importazione di champagne, per un importo pari a diversi milioni di euro.
Una parte dei reati per i quali si procede nei confronti degli imputati si è già estinta per effetto della prescrizione. Gli altri reati saranno prescritti al più tardi l’8 febbraio del 2018.
Secondo il diritto penale italiano, infatti, la prescrizione è determinata sulla base del massimo della pena stabilita dalla legge per lo specifico reato (nel caso in esame, sei anni). Inoltre, dalla data dei fatti è permessa una proroga del termine di prescrizione di un solo quarto della sua durata: dunque, nel nostro caso, ne risulta un termine complessivo di circa 7 anni e 6 mesi, che l’esperienza dimostra è spesso insufficiente per ottenere una sentenza definitiva in Cassazione.
In altre parole, la disciplina interna in materia di prescrizione e la lentezza della giustizia italiana finirebbero per eludere le regole di diritto UE, garantendo così l’impunità di imputati di reati commessi anche in danno agli interessi finanziari dell’Unione. Per questa ragione, il tribunale di Cuneo ha chiesto alla Corte se, alla luce di una corretta interpretazione del diritto UE, la disciplina italiana in materia di prescrizione possa creare un nuovo caso di esenzione dall’Iva non prevista dalle specifiche norme UE.
La pronuncia della Corte
Con la pronuncia dell’8 settembre, la Corte risponde affermativamente al quesito posto dal giudice di Cuneo. E motiva la sua posizione, anzitutto, rilevando che il bilancio dell’Unione è finanziato anche da una parte delle entrate provenienti dall’applicazione dell’Iva nei singoli Stati membri: esiste, quindi, un nesso diretto tra le riscossioni di tali entrate e gli interessi finanziari dell’Unione. In secondo luogo, riafferma che gli Stati membri possono determinare le sanzioni applicabili in caso di mancato pagamento dell’Iva o di altre attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’UE. Tuttavia, le misure devono essere sufficientemente dissuasive. E ciò rende necessaria, in taluni casi, l’introduzione di sanzioni penali.
Sulla base di queste considerazioni, la Corte afferma che una disciplina della prescrizione, come quella tuttora vigente in Italia, è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dal diritto dell’Unione quando sistematicamente impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in casi di frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare nel caso concreto.
Le risposte dei giudici penali italiani
Le conseguenze della decisione sono senza dubbio significative. Il giudice penale italiano, infatti, è tenuto a non applicare le norme in materia di limite massimo al corso di prescrizione qualora queste consentano di fatto la sostanziale impunità dei soggetti a cui viene contestata un’evasione dell’Iva o di altro reato lesivo degli interessi finanziari dell’UE. In altri termini, il giudice avrà in tal caso l’obbligo – discendente direttamente dal diritto dell’Unione – di condannare l’imputato ritenuto colpevole dei reati ascrittigli, nonostante l’intervenuto decorso della prescrizione.
Il giudice dell’UE riesce dunque dove il nostro legislatore ha finora mancato, cioè nella riforma della prescrizione? La risposta non è agevole: se è vero che l’orientamento della Corte di giustizia è sposato il 17 settembre scorso dalla Corte di Cassazione (III sezione penale), che condanna imputati i cui reati si erano già prescritti, un nodo gordiano rimane da recidere. Infatti, l’accoglimento tout court della sentenza dell’8 settembre può verificare l’‘aberrante situazione’ (sic la Corte costituzionale, nella risalente sentenza “Frontini”) di una norma europea potenzialmente confliggente con un principio materiale della nostra Costituzione. Si tratta del principio di legalità della norma in materia penale di cui all’articolo 25 comma 2, secondo cui nessuna responsabilità penale può discendere se non in forza della legge ed entro il cui ambito di operatività rientra, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, anche la materia della prescrizione.
Confermando la complessità della questione, appena un giorno dopo la sentenza del 17 settembre della Corte di Cassazione, la Corte di appello di Milano (II sezione penale) ritiene di non poter disapplicare la norma interna in materia di prescrizione e richiede alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla compatibilità degli effetti di tale disapplicazione con il principio di legalità in materia penale.
Per comprendere il peso del fardello ora sulla Corte costituzionale, basti notare che una sua eventuale decisione – che non si avrà, comunque, prima di due anni – dovrà tenere in considerazione la posizione che la Corte di giustizia UE ha espressamente tenuto, ossia che la disciplina della prescrizione è un aspetto procedurale che non rientra nell’ambito di operatività del principio di legalità della norma penale e çava sans dire che un giudicato discordante ostacolerebbe la riscossione di entrate anche dell’Unione.
Davide Zampoli
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